Questo è un articolo un po’ anomalo rispetto ai miei soliti, in questo caso ho preso in mano non un testo operativo bensì un saggio di filosofia/economia.

Titolo: Teoria della classe disagiata
Autore: Raffaele Alberto Ventura
Editore: Minimum Fax
Amazon: https://amzn.to/2KBhrDr

Questo testo è estremamente interessante perché ci da una ricchezza di spunti non indifferente riguardo a una serie di bias che ci sono stati ficcati in testa dalla cultura contemporanea.

Volendo riassumere all’osso, la tesi del libro è la seguente:
L’agiatezza economica in cui siamo cresciuti ci ha promesso che da grandi avremmo avuto un bel lavoro a patto di aver fatto i compiti prima di Bim Bum Bam (partendo dalle elementari, fino al master)…ma questa cosa non si è verificata.
In questa suggestione collettiva di “io sono speciale” abbiamo scoperto che “tutti saranno speciali, così sarà come se non lo fosse nessuno”:
il settore dell’industria culturale e creativa è andato in saturazione di offerta il che ha implicato la nascita di una condizione disagiata, dove il disagio non è in termini di mero sostentamento, ovvero la povertà in senso letterale, ma è bensì l’insoddisfazione di non poter fare quel lavoro figo che ti eri immaginato quando avevi 20 anni.

Un aspetto interessante di questo testo è come illustra il fatto che questo sia solo un riproporsi in chiave moderna di eventi accaduti in precedenza: non è la prima volta nella storia che una generazione agiata si sente disagiata.

Di seguito vi riporto alcuni passaggi molto interessanti

La classe disagiata, come vedremo, è come incatenata a un’educazione che la costringe a desiderare un’esistenza che non può permettersi, perlomeno a lungo termine.

A prima vista la nostra piramide dei bisogni risulta visibilmente sottosopra, con certi bisogni posizionali (ciò che Abraham Maslow chiamava «autorealizzazione») che prendono il sopravvento su bisogni primari come alimentazione, salute, sicurezza

Dietro alla narrazione leggendaria emersa nei primi anni Duemila sul terziario avanzato si è iniziato a intravedere il rovescio della medaglia, che in Italia Bertram Niessen illustra nelle sue ricerche, ovvero l’instabilità economica e le sue innumerevoli conseguenze esistenziali. «La proliferazione di regimi retorici costruiti attorno alle Industrie Culturali e Creative», scrive Niessen in un articolo incluso nel volume collettaneo Platform Capitalism e confini del lavoro negli spazi digitali, «ha costruito un immaginario collettivo secondo il quale le nuove professioni legate alla creatività avrebbero permesso non solo una piena realizzazione delle proprie aspettative identitarie, ma anche di quelle economiche. Non è andata esattamente in questo modo».

Su questo passaggio integro una mia personalissima opinione: ho l’impressione che, almeno in Italia, il terziario avanzato è sostanzialmente vittima del fatto di non essere abbastanza avanzato. Il fatto che abbiamo a disposizione strumenti fantastici per potenziare la produttività e la profittabilità delle aziende dovrebbe essere accompagnato all’aver adottato metodi e dinamiche altrettanto “moderne”, invece siamo rimasti a dinamiche organizzative datate – provate a far mente locale a quanti utilizzano il telelavoro. Grazie a internet e ai social abbiamo possibilità di analizzare chirurgicamente flussi di comportamento di qualsiasi tipo di target…spesso e volentieri non usiamo quei dati e ci affidiamo a metodi empirici tutt’altro che scientifici.

In effetti con la diminuzione dei prezzi dei beni di prima necessità gli individui possono risparmiare delle risorse da reinvestire nell’economia posizionale. Ma in questo modo aumentano le spese da sostenere per garantirsi una posizione sociale e professionale soddisfacente. È la maledizione di Veblen che ci porta a competere per lo status, perché lo status ci garantisce un accesso più agevole alle risorse, con le quali possiamo competere per ulteriori salti di status. Il paradosso di un bene posizionale è che rende possibile la coesistenza tra sovrapproduzione e scarsità: da una parte diminuisce il prezzo delle merci abbondanti per cui esiste una forte concorrenza tra i produttori ma dall’altra cresce il costo di quelle merci rare per cui esiste una forte concorrenza in seno alla domanda. Così il costo della vita contemporaneamente si abbassa (per quanto riguarda i beni materiali) e si alza (per quanto riguarda i beni sociali) mentre una crescente quantità di bisogni sociali entra di prepotenza nella sfera del «necessario».

La domanda formulata dai ribelli del Sessantotto non è rimasta inascoltata, ma invece di ricevere una risposta politica è stata soddisfatta dal mercato, che si è premurato di appagare, talvolta, con il contributo di un marketing che non ha esitato a strizzare l’occhio ai valori della generazione del baby boom. Lubrificata da ampie dosi d’ironia, la critica del capitalismo e dell’industrialismo è diventata il core business dell’industria culturale: l’«oppio degli intellettuali», come lo chiamò Raymond Aron in uno dei più lucidi saggi di teoria critica del Novecento. Il mercato culturale non ha soltanto assorbito le istanze edonistiche e contestatarie del Sessantotto, ma ne ha fatto la chiave di volta della propria nuova struttura. L’artista diventa così la figura messianica nella quale il borghese è chiamato a trasformarsi, come notato da Boltanski e Chiapello o in tempi più recenti dal critico d’arte Ben Davis nelle sue 9.5 Theses on Art and Class. L’esito è talvolta inquietante, con la trasformazione di simboli e mitologie politiche o d’avanguardia in una grottesca parodia, che pure sembra divertire molto i reduci di quelle battaglie.

Se la pubblicità è sempre stata un procedimento per costituire il desiderio, oggi lavora soprattutto a costituire la legittimità di questo desiderio, al fine di trasformare il consumo in un’operazione politicamente accettabile.

Il concetto è illustrato in modo lampante da slogan che partono da “perché io valgo” e arrivano a “genio e regolatezza” chiudendo un cerchio che potremmo riassumere in “devi comprarlo perché te lo meriti”.

Una vera e propria estetica anti-industriale prende forma nell’arco di due secoli, cristallizzandosi attorno ad alcuni luoghi comuni che possiamo esporre in forma schematica. A ogni caratteristica intrinseca dei processi di produzione industriale (divisione del lavoro, meccanizzazione, eccetera) corrisponde un disvalore estetico (assenza del genio individuale, artificiosità del prodotto, eccetera).

Presto basterà la somma di questi disvalori dell’industria a definire, in negativo, la concezione dell’arte secondo la nuova cultura anti-industriale:

  • Riproducibilità -> perdita dell’aura
  • Divisione del lavoro -> assenza del genio individuale
  • Meccanizzazione dei processi -> artificio
  • Impatto ambientale e sociale -> esternalità negative
  • Scadimento delle materie prime -> minore qualità/obsolescenza
  • Grandi scale di produzione -> standardizzazione/conformismo
  • Impresa capitalistica -> interessi di classe
  • Domanda ampia -> livellamento sui gusti popolari
  • Offerta ampia -> consumismo
  • Separazione produttore/consumatore -> passività del consumo

Jean Baudrillard poteva dunque scrivere nella Società dei consumi: «Come la società del Medioevo si reggeva in equilibrio su Dio e sul diavolo, così la nostra si regge sul consumo e sulla sua denuncia». Riprendendo l’elenco dei disvalori legati alle caratteristiche intrinseche del prodotto industriale, notiamo che nell’attuale retorica pubblicitaria ognuno è stato oggi sostituito da un valore disponibile sul mercato:

  • Perdita dell’aura -> «unico»
  • Assenza del genio individuale -> «d’autore»
  • Artificiosità -> «artigianale»
  • Esternalità negative -> «equo e solidale»
  • Minore qualità/obsolescenza -> «naturale»
  • Standardizzazione/conformismo -> «di nicchia»/«customizzato»
  • Interessi di classe -> «indipendente»
  • Livellamento sui gusti popolari -> «impegnato»
  • Consumismo -> «fruizione culturale»
  • Passività del consumo -> «consumatore critico»/«prosumer»

L’industria culturale, che produceva oggetti standard per un mercato di massa, si sta trasformando in un dispositivo di allocazione di oggetti irregolari su un mercato frammentato. Se prima si trattava di un sistema di selezione e diffusione dei contenuti, oggi sta diventando una piattaforma neutrale di pubblicazione, circolazione e scambio. Lo spazio sempre più grande che sembra essersi disegnato fuori e contro l’industria culturale, questo paradiso ritrovato in cui liberamente si creano, si scambiano e si fruiscono gli oggetti culturali, è in realtà il cuore stesso di una nuova economia culturale

La figura del «prosumer», neologismo del marketing che indica un cliente che produce contenuti sfruttati dall’azienda, riassume bene le contraddizioni dell’industria culturale 2.0.

L’esempio paradigmatico è oggi quello dell’utente dei social network. Mezzo producer e mezzo consumer, il prosumer in un certo senso consuma l’illusione di essere un produttore, un artista, attraverso un intero ecosistema in grado di generare le gratificazioni associate alla produzione culturale – a partire dal like di Facebook.

Nel Pendolo di Foucault, Umberto Eco definiva «quarta dimensione della letteratura» il mondo degli «autori a proprie spese» (APS): un esercito di sfigati che ambiscono a essere pubblicati e ci riescono soltanto pagando dei finti editori, proprio come fino a qualche anno fa certi aspiranti artisti andavano in televisione sui canali di Andrea Diprè. Oggi il self publishing permette a molti di noi di raggiungere con il nostro messaggio una nicchia più o meno grande. In realtà questa sfiga è relativa, e in altre epoche l’editoria a pagamento è stata praticata da moltissimi autori che oggi consideriamo classici. Eco pensava che gli APS avessero torto e il mercato ragione, ma la rivoluzione della coda lunga ha rovesciato questo rapporto. Oggi siamo tutti autori a nostre spese, perché le spese tendono allo zero, sia per la produzione materiale che, soprattutto, per la diffusione digitale. Siamo cioè una versione 2.0 degli artisti della scuderia di Diprè.

Nell’epoca dell’user generated content, Diprè proclama che per essere artisti basta sentirsi tali:

Ti senti artista? Ti senti pittore, ti senti scultore, ti senti di avere impugnato certi problemi o certe magie dell’arte?
Ebbene Andrea Diprè che sono io, che ti sta parlando, il critico d’arte Andrea Diprè, è qui. Per te, in questo momento! Oggi l’artista se non va in televisione – un po’ tutti comunque, ma l’artista soprattutto, che vive di conoscenza… Come possono amare le tue opere se non ti conoscono?
I suoi argomenti assomigliano terribilmente alla retorica dei social network, alle pubblicità dei telefonini, alle parole d’ordine del web 2.0: «Crea il tuo blog», «Share your sounds» em«Scrivi il tuo libro». Miserabili insomma siamo tutti noi, artisti e scribacchini della domenica in questa domenica che sembra eterna. Se Diprè è un truffatore, che dire di Facebook? E delle facoltà di Lettere e Filosofia? E delle scuole di cinema, dei premi letterari, dei siti culturali, dei commenti e dei like che costruiscono dal nulla delle reputazioni che non producono nessun reddito? Il prosuming è una grande cospirazione collettiva, o forse il solo gioco di ruolo che può dare senso alle nostre esistenze.

Se i produttori si trasformano in prosumer e gli editori in piattaforme, è l’intero sistema che cambia forma.
Non ci sono più beni: 
soltanto servizi.
Non c’è più proprietà: ma soltanto flussi di contenuto.

Al termine di un’evoluzione secolare che ha portato la tecnologia industriale ad assorbire e rendere consumabili su vasta scala le forme più raffinate della vita intellettuale, la produzione culturale per una grande maggioranza della classe disagiata oggi non si presenta più come lavoro ma come consumo. Proprio come il pittore di Diprè è innanzitutto consumatore di tele e pigmenti. Da Gutenberg a Zuckerberg, questa è la fine dell’industria culturale come la conosciamo. Speriamo solo di essere più fortunati di Osvaldo Paniccia.

…poiché un numero crescente di persone è stato equipaggiato con competenze professionali (capitale educativo) e apparecchiature altrettanto professionali (capitale in senso stretto), l’effetto della concorrenza e dell’eccesso di offerta finisce per erodere ogni margine di profitto. «Ogni nuova invenzione che permetta di produrre in un’ora ciò che finora si produce in due ore», scrive Marx in Miseria della filosofia nel 1847, «deprezza tutti i prodotti dello stesso genere che si trovino sul mercato». A questo punto – e vale per le grosse fabbriche come per i fotografi dilettanti – le macchine finiscono per lavorare in perdita nella speranza di buttare la concorrenza fuori dal mercato e riuscire a godere, alla fine, della loro rendita di posizione.

Questo è vero più che mai nelle società borghesi, dove l’Homo oeconomicus non rivaleggia per i beni di prima necessità quanto piuttosto per i beni posizionali, ovvero tutti quei consumi che servono a definire un rango sociale «mano a mano che tutti si equipaggiano degli stessi titoli e delle stesse competenze, per effetto della concorrenza il prezzo della merce prodotta finirà per allinearsi al prezzo di produzione. In un mondo di «imprenditori di se stessi», tutti fanno i conti con il rischio della bancarotta.

Nella grande confusione ideologica che regna, possiamo quindi vedere le piazze occidentali riempirsi prima di ventenni che reclamano finanziamenti pubblici per sofisticatissime formazioni, e poi, qualche anno dopo, di trentenni che rivendicano il diritto a un inserimento professionale all’altezza della loro educazione. Implicita è una forma evidente di disprezzo di classe: io ho un master in Cooperazione allo sviluppo e non vado certo a fare la commessa al Lidl.

Oggi, mentre continuiamo a ripeterci come un mantra che «la cultura non è un lusso» sono sempre più numerosi gli analisti che parlano di una «bolla educativa» pronta a scoppiare e a trascinare nella povertà la parte più fragile della classe media.

Nel 2013, il politologo Alexandre Afonso pubblicò sul suo blog un articolo che circolò molto, anche grazie a un titolo spettacolare: «How Academia Resembles a Drug Gang», ovvero «In che modo il mondo universitario assomiglia a una gang di spacciatori». Afonso parte dal famoso capitolo di Freakonomics per arrivare alla conclusione che, proprio come una gang di Chicago, l’intero sistema accademico è costituito da un minuscolo nucleo di lavoratori protetti e una grande massa di precari che sognano solo di penetrare nel sancta sanctorum del posto fisso: secondo Afonso «è la prospettiva del guadagno futuro, più che le condizioni di lavoro attuali, il loro principale movente». Come il rapper 50 Cent, il loro motto è «Get rich or die trying». Insomma l’accademia si basa sull’esistenza di un’offerta di «outsider» disposta a lavorare a queste condizioni «in cambio della promessa della sicurezza, del prestigio, della libertà e dei salari ragguardevoli garantiti a chi riesce a farsi una posizione». Afonso analizza l’evoluzione di questa tendenza negli Usa e in Germania e ne trae la seguente conclusione: Il nucleo si restringe, la periferia si espande, e il nucleo dipende sempre di più dalla periferia. In molti paesi, le università fanno affidamento sulla crescente estensione del loro «esercito industriale di riserva» di universitari che lavorano con contratti svantaggiosi per via di questo peculiare sistema di incentivi.
«la concorrenza pe r mezzo dei diplomi ha, per dirla come gli specialisti di teoria dei giochi, la struttura di un dilemma del prigioniero generalizzato». Poiché tutti fanno i proverbiali sacrifici per rendersi appetibili sul mercato del lavoro, sono necessari sacrifici sempre più ingenti: si ritarda l’entrata nella vita attiva, si pagano costose formazioni, si lavora gratis o quasi

Nel caso del sistema educativo l’obiettivo è più limitato: trasformare lo studente in consumatore, che tenderà a risparmiare il meno possibile al fine di garantirsi uno stile di vita affine a quello promosso dalla scuola e dall’università. A guidare questo progetto formativo non è la crudeltà come nel caso di Des Esseintes, ma un terribile ottimismo. Le statistiche promettevano tassi di crescita a due cifre, deindustrializzazione felice e imborghesimento di massa: bastava dunque soltanto un pizzico di sospensione dell’incredulità per convincersi che la cultura avrebbe potuto sostituire le altre attività economiche.

Tragedia e commedia sono modi diversi per raccontare lo stesso carattere, lo stesso destino: il disagio di chi non riesce a diventare se stesso secondo l’immagine, oramai impressa indelebilmente, che se ne era fatto quando aveva vent’anni. Un disagio che emerge nei periodi di crisi economica, quando un numero crescente di persone non trova modo di realizzare le proprie aspirazioni, e che rende tanto simile la nostra esperienza a quella della Russia di fine Ottocento.


Quindi cosa facciamo? Ci suicidiamo in massa?
No, dietro ad ogni ostacolo si cela un vantaggio competitivo.

Dalle analisi del libro potremmo arrivare a una conclusione di questo genere:
il numero di posti di lavoro di qualità che il terziario è in grado di generare è minore rispetto alla forza lavoro disponibile.

Andrebbe osservato il fatto che molte aziende del terziario non sono esattamente all’avanguardia, e infatti hanno una vita breve;
altre sono in una posizione “too big too fail”, ovvero si interfacciano con operatori e clienti vecchi tanto quanto loro, quindi sono nella condizione di poter vendere bene un prodotto in sé obsoleto, così facendo si instaura un equilibrio dove si genera lavoro anche per gli operatori del terziario. In pratica: facciamo sempre la stessa merda, tanto il nostro cliente non capisce un cazzo e la sua spesa copre il profitto e il costo degli stipendi.

Dalla parte opposta dello spettro troviamo i liberi professionisti che spesso obbediscono a logiche vecchie: presentarsi come generalisti, avere il business model circoscritto al “faccio una data attività a fronte di una remunerazione oraria”, ecc.

Questa categoria è forse quella che più subisce danno dall’incombenza della situazione generale alla quale si somma la concorrenza a prezzo basso data da fattori come: delocalizzazione (sì, anche il lavoro di grafico viene delocalizzato), hobbysti (il classico incubo del cugino), altre categorie di persone disposte ad elargire il servizio a basso prezzo.

Di contro però il freelance oggi ha una vasta gamma di possibilità di promuoversi con budget ridotto, se combiniamo questo fattore con un buon business design (leggasi “reinvetarsi il proprio lavoro”) si possono arrivare a buoni risultati. A tutto questo va aggiunta la possibilità di poter ridisegnare completamente il business model personale, in modo tale da potersi proporre come qualcosa di completamente innovativo e non paragonabile a tutti gli altri “lavoratori disagiati”.

Insomma: è una situazione complessa ma c’è la possibilità di uscirne vivi come ha dimostrato il caso di Rick DuFer.
Già che ci siamo vi linko un confronto filosofico interessante fra l’autore del libro e il filosofo da youtube.

P.S. Sto preparando una serie di approfondimenti sul busines model personale specificatamente per uscire dal disagio (to be continued…)

Share This